Diario dei laboratori – Storytelling e drammatizzazione: riflessioni e applicazioni in Teatroterapia

Report di Lidia Trenta

“La vita di ogni persona può essere vista come un romanzo:
la scoperta di questa analogia è di per sé terapeutica”

Erving Polster

Il laboratorio “Storytelling e drammatizzazione: riflessioni e applicazioni in Teatroterapia”, incentrato sulle tecniche narrative nelle loro diverse declinazioni, condotto da Chiara Germanò, educatrice professionale e teatroterapeuta, è stato molto coinvolgente, in quanto la conduzione caratterizzata da discrezione e non direttività ha permesso alle partecipanti, sia individualmente che come gruppo, di fare esperienza diretta del proprio racconto interiore, creando un clima di fiducia che ha messo ogni partecipante a proprio agio, permettendogli a poco a poco di lasciarsi andare e ri-scoprire nuovi aspetti di sé.

Il laboratorio ha preso il via con un’introduzione teorica rispetto al concetto di narrazione, intesa come veicolo di cambiamento e fulcro del processo terapeutico. Si è riflettuto su quanto, spesso inconsapevolmente, la narrazione sia un elemento centrale e significativo nella nostra vita, umana esigenza di raccontarsi all’esterno, ma anche e soprattutto a noi stessi, per dare un senso a quanto ci accade, costruendo così la nostra identità narrativa, poiché sono le storie che noi stessi raccontiamo della nostra vita a determinarne il significato: le esperienze danno una forma all’identità, mentre l’atto del narrarle attribuisce ad esse un significato, inserendole in una storia già esistente. Narrare è dunque un’operazione di consapevolezza, che permette di costruire una propria visione di se stessi e del mondo. Il teatro concretizza la distanza estetica già insita nella narrazione, aiutandoci nell’osservazione di noi stessi attraverso lo sguardo dell’altro, ma anche attraverso un nostro sguardo nuovo e differente, permettendoci di rivisitare alcuni eventi del nostro passato quando la drammatizzazione è di tipo autobiografico, ed in primis accompagnandoci nel gioco della rappresentazione di noi stessi, spingendoci dolcemente ad entrare in scena con tutto il nostro essere corpo, cuore, testa, anima.

Siamo poi entrati nel lavoro esperienziale, con una prima attività di riscaldamento ed attivazione corporea ed immaginativa, nel corso della quale, guidati da uno stimolo sonoro, siamo stati chiamati a definire il nostro territorio, lo spazio vitale che ci è necessario e che sentiamo appartenerci, che immediatamente possiamo riconoscere quando lo sentiamo invaso…l’esperienza ci ha invitato a riflettere su quali siano le dimensioni del nostro territorio, quanto siamo disponibili a condividerlo e quanto osiamo accostarci a quello degli altri.

L’attività successiva era invece incentrata sulla relazione, ed in particolare sul prendersi cura e lasciare che qualcun altro si prenda cura di noi, e conseguentemente sui temi dell’intimità, della dipendenza ed indipendenza, sulla volontà e possibilità di assumersi dei rischi e di lasciare che le persone a noi care facciano lo stesso. Tutto ciò è stato messo in scena, in un lavoro a coppie, attraverso l’immedesimazione nella figura dell’uccello che deve proteggere il suo uovo, dapprima costruendo un nido caldo e sicuro, quindi covando il suo uovo fino a quando questo si schiude, scoprendo se stesso, il genitore, e, sotto la sua guida, l’ambiente circostante. Mamma uccello ha poi il compito di nutrire il suo piccolo ed insegnargli a volare. Io ho istintivamente scelto di essere un pinguino (nonostante la consegna non richiedesse di identificarsi in un particolare tipo di uccello), probabilmente perché mi affascina il loro mondo, la loro capacità di affrontare le avversità ambientali, anche sostenendosi l’un l’altro. Questa attività mi ha molto emozionato.

Successivamente ci siamo avvicinate alla drammatizzazione vera e propria, partendo da un lavoro d’improvvisazione a coppie, facilitato dall’indicazione della conduttrice di interagire con alcuni oggetti mediatori dell’azione e dell’interazione. Da queste improvvisazioni sono poi nate delle storie, che ognuno ha potuto rappresentare attraverso il linguaggio espressivo che in quel momento maggiormente gli si confaceva. È stato sorprendente scoprire come ogni storia avesse un filo conduttore che la legava alle altre, nonostante ognuna raccontasse qualcosa di diverso. Lì mi sono accorta che il gruppo era molto in sintonia, aspetto che ha influenzato il vissuto dell’intero weekend, che è poi proseguito in un lavoro maggiormente incentrato sull’autobiografico, attraverso la narrazione di sé a partire da un oggetto significativo che ci era precedentemente stato richiesto di portare. Questa attività si è prolungata tantissimo, ognuno ha portato non solo un oggetto (una fotografia, un portachiavi, un anello, un bracciale, una poesia, un brano musicale, una cartolina…) al quale era in qualche modo legato affettivamente, ma una vera e propria parte di sé, perdendosi letteralmente nel gusto di narrare un pezzo della sua storia, in un caleidoscopio di sfumature che hanno fatto emergere tematiche importanti come il cambiamento, il conflitto, l’appartenenza, la famiglia, la forza interiore….la conduttrice ha scelto di non interrompere questo flusso narrativo spontaneo, dandoci modo di assaporarne tutta la magia. Siamo poi state invitate (il gruppo era interamente al femminile!) a creare un’unica storia collettiva a partire da queste narrazioni individuali, lavoro che è stato svolto divise in due sottogruppi, che hanno generato due storie con un nucleo di significato immutato, ma due stili narrativi differenti. Anche questo mi ha dato modo di riflettere sull’immensa potenzialità della narrazione e del teatro al suo servizio, che offre innumerevoli possibilità.

Nell’arco delle due giornate ognuna è stata chiamata ad accostarsi lentamente al proprio sé, dandogli un ambito, uno scenario in cui prendere coscienza di avere un proprio esclusivo racconto, facendo emergere la propria memoria esistenziale attraverso un oggetto/ricordo transizionale. Non sono poi mancate le occasioni in cui la conduttrice ha spiegato come le diverse attività si sarebbero potute adattare, nel nostro lavoro in veste di operatori, alle differenti tipologie di utenza, fino alla conclusione della seconda giornata, in cui abbiamo sperimentato l’approccio multimodale BASICPh di Mooli Lahad, drammaterapeuta israeiliano, attraverso la tecnica da lui denominata 6PSM (Six Pieces Storymaking), che consiste nell’accompagnare l’utente nella costruzione di una storia attraverso il disegno o il semplice scarabocchio, utilizzando poi gli elementi emersi per la comprensione del suo linguaggio interiore e per valutare le principali risorse di coping dell’utente, aiutando l’operatore ad impostare la relazione di conseguenza.

Voglio concludere ironicamente, con una vignetta di Cavezzali che ben riassume il mio vissuto dopo questo laboratorio….

cavezzali



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